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“L’arte della quarantena”, la bellezza per resistere: “Giuditta” o la femme fatale



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Oggi ritroviamo un personaggio che abbiamo conosciuto in precedenza, raffigurato da Caravaggio in una tenebra sanguinosa: la biblica Giuditta. Ma ora ci siamo spostati nel tempo e nello spazio, e se il grande maestro del Seicento italiano ha raffigurato gli attimi concitati della decapitazione di Oloferne, stavolta, con Gustav Klimt, il dramma s'è compiuto. Siamo a Vienna, nel 1901, e Klimt è già un artista affermato e discusso. La sua prima Giuditta (ne dipingerà un'altra nel 1909) è uno degli esempi più riusciti dello "stile aureo" klimtiano, così chiamato per via dell'abbondante color oro impiegato nei suoi dipinti. Questa profusione dorata entra a gamba tesa nell'arte di Klimt dopo il suo viaggio in Italia e la visione, rivelatrice, dei mosaici bizantini di Ravenna.
La bidimensionalità e i colori smaglianti dell'arte ravennate diventano la cifra stilistica di Klimt, che trasforma le sue donne in icone dal sapore iconoclasta. La sua Giuditta si colloca nella scia decadente e simbolista che, in arte e in letteratura, aveva generato la figura della "femme fatale", della donna pericolosa che incarnava le paure dell'uomo borghese, la cui autorità poteva essere messa in discussione da un eventuale ribaltamento della società, da patriarcale in matriarcale. L'idolo atavico della Grande Seduttrice Crudele si scinde in molteplici varianti come in un perverso gioco di specchi: Giuditta, Salomè, Medusa, Medea, Cleopatra e tante altre; è l'era delle spietate e sonnambule "tagliatrici di teste" di cui Giuditta è l'antesignana. Il tema della decapitazione non è che il mascheramento simbolico della castrazione, la paura principale del masochismo erotico di fine secolo, che sarà poi scandagliato da Freud.
Nel dipinto di Klimt, Giuditta è vista dalla testa al bacino, mentre con la sua mano artigliata (seducente arpia) regge la testa di Oloferne, relegata in un angolo. Il suo corpo è rosato come un fiore velenoso e la testa reclinata all'indietro, la bocca dischiusa in un sorriso e l'occhio languido sono chiari indici di un appagamento insieme mortifero e sensuale: l'aver decapitato Oloferne le ha procurato un piacere molto simile, se non superiore, a quello dell'orgasmo. Il punto di vista ravvicinato ci avvicina a Giuditta che sembra offrirsi all'atto sessuale, ma il suo braccio orizzontale diventa una sorta di sbarra che vieta l'accesso e la allontana dal mondo reale per proiettarla nella sua sfera crudele, dorata e inavvicinabile. Al collo porta una pesante collana/collare barbarica di oro e pietre dure, che ne separa la testa dal capo, quasi una decapitazione simbolica con cui l'artista vendica l'altra decapitazione/evirazione del maschio. Il binomio "amore-morte" è un vero e proprio leitmotiv che accompagna tutta la produzione di Klimt, artista mitizzato anche dalla sua fama di instancabile seduttore e amante delle sue numerosissime modelle. Alcuni dettagli curiosi rendono questo quadro ancora più singolare: la cornice è opera del fratello dell'artista, Georg, scultore, falegname e scaricatore di porto. Klimt, appassionato di archeologia, ha decorato lo sfondo con un motivo ripreso da un rilievo assiro del palazzo di Sennachenib dell'antica Ninive. Inoltre, il volto di Giuditta è quello di Adele Bloch-Bauer, aristocratica viennese ritratta molte volte da Klimt e famosa per la sua eccentricità e avvenenza.

Danilo Borri


postato il 3/4/2020 alle ore 13:58

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